Il lato oscuro del coinvolgimento sociale

Esiste il lato oscuro del coinvolgimento sociale?
Intendo, la paura e la resistenza a passare da uno stato di coinvolgimento sociale ad uno stato di attivazione del tipo attacco/difesa?
Può questa resistenza portare insicurezza?
È questo il caso che può indurre il cosiddetto “appeasing” (compiacere la minaccia) oppure “fawning” (adulazione della minaccia)?

Lo scontro fra la società e la fisiologia del nostro (individuale) sistema nervoso può creare confusione, distorsione e dolore.
Dire di no infatti, può essere difficile perché questo implica la possibilità di rottura del nostro coinvolgimento sociale in un certo ambito (famiglia, colleghi, condominio, gruppo, etc.).

Questa possibilità di rottura può indurci a trasferire il conflitto esterno portandolo all’interno di noi stessi.
Se per questa ragione il conflitto viene trasferito all’interno della persona, il sistema nervoso può comunque fisiologicamente orientarsi verso una delle possibili risposte: lotta, fuga, compiacimento o congelamento.

L’opzione della lotta, se interiorizzata potrebbe indurre nella persona un costante rimuginio (ad esempio), cioè una discussione interiore senza fine espressa in termini di pensiero e significato.

L’opzione della fuga interiorizzata, potrebbe invece condurmi alla dissociazione da me, ad esempio spostando forzatamente il mio interesse verso un altro piano dell’esistenza: il piano spirituale può essere un buon by-pass oppure una pratica sportiva ossessiva o anche una pratica meditativa o altro insomma, qualsiasi cosa adatta a distrarmi allontanandomi dal vero terreno di scontro.

Il compiacimento (appeasing o fawining cioè adulazione) potrebbe poi essere solo una soluzione temporanea rispetto alla minaccia, perché esso nutrirebbe comunque la sensazione di conflitto nella persona, alimentando ulteriormente la necessità di interiorizzare lo scontro.


Alla lunga quindi, il lato oscuro del nostro coinvolgimento sociale, può portare solo al congelamento, poiché questo rimarrebbe infine l’unica soluzione praticabile per il nostro sistema nervoso: quindi apatia, tendenza ad uno stato depressivo, di immobilismo, calo dell’energia a disposizione, estremo rallentamento, sino al limite della sonnolenza.
La soluzione che propone la società infatti è sempre (gioco-forza) all’interno del coinvolgimento sociale stesso, cioè qualcosa che comunque richiede l’inibizione dell’aggressività necessaria ad una vera lotta o ad una fuga efficace.

Per me come individuo quindi è sempre fondamentale l’orientamento, cioè la capacità di osservare l’ambiente valutando correttamente eventuali minacce.
E’ una banalità, ma questo stato è la base perché orienta (appunto) il nostro comportamento di conseguenza e pertanto esso non dovrebbe subire interferenze.

Nel caso sia opportuno, l’orientamento infatti si deve trasformare in un orientamento difensivo, cioè nella preparazione a sostenere uno scontro lottando oppure ad abbandonare il campo allontanandomi, fase che include il radicamento e il contenimento, cioè il rafforzamento dei confini fisici, energetici e psichici.

Ma che cosa può interferire con la funzione dell’orientamento se non la necessità di coinvolgimento sociale?
In altre parole, si da il caso in cui la difficoltà ad orientarmi verso la minaccia dipenda proprio dal fatto che il pericolo è insito nel coinvolgimento sociale, ad esempio quando esso sia inappropriato per la persona ma imposto (famiglia) o difficilmente evitabile (colleghi, condominio)… oppure come adesso, durante l’emergenze dovuta al Covid-19 dove la minaccia è identificata nel contatto sociale.